Gli psicostimolanti promuovono lo sforzo cognitivo, non accrescono le facoltà

 

 

LUDOVICA R. POGGI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 04 aprile 2020.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Il metilfenidato (C14H19NO2)[1], incluso nella classe degli stimolanti psicomotori con amfetamina e cocaina, ha una struttura 2-benzil piperidinica simile a quella dell’analgesico meperidina; parte della struttura è condivisa con quella delle catecolamine e delle feniletilamine, dalle quali si distingue per il gruppo piperidinico al posto del gruppo amminico. Nell’organismo ha un’emivita di 2-4 ore, si lega alle proteine per il 30%, è metabolizzato dal fegato per l’80% ed è escreto con le urine. Come gli altri stimolanti psicomotori, il metilfenidato interagisce con le proteine trasportatrici monoaminiche di dopamina, noradrenalina e serotonina (DAT, NAT, SERT), accrescendo il livello extra-neuronico di questi neurotrasmettitori, prevalentemente con un’azione inibitrice della ricaptazione come quella della cocaina[2], i cui effetti presentano la migliore correlazione con la potenza di legame al DAT, la molecola che media la ricaptazione della dopamina.

Già negli anni Ottanta, in vari stati degli USA il metilfenidato era prescritto in età pediatrica per il trattamento del disturbo da deficit dell’attenzione con iperattività (ADHD); in Italia ancora oggi la prescrizione è molto limitata, anche se alcuni studi hanno dimostrato da molti anni che il trattamento durante l’infanzia con metilfenidato non accresce il rischio di abuso di sostanze psicotrope in età adulta[3]. La prudenza, da noi compresa e condivisa, è dettata da una conoscenza ancora molto limitata dei meccanismi molecolari e dei cambiamenti nella fisiologia dei sistemi neuronici indotti dalla sua azione.

L’assunzione di metilfenidato e altri farmaci psicostimolanti simili, per migliorare le prestazioni cognitive, è ormai diffusa in tutto il mondo[4], anche se sconsigliata dai medici e considerata frode sportiva (doping) in qualsiasi tipo di competizione agonistica. L’approfondimento delle conoscenze relative al meccanismo d’azione di queste molecole, spesso studiate quasi esclusivamente nella loro interazione con i sistemi di segnalazione dopaminergici indagati per la fisiopatologia dell’addiction da cocaina, rimane di notevole importanza, anche in rapporto alla somministrazione al di fuori delle indicazioni canoniche, che si registra sempre più frequentemente.

Westbrook e colleghi hanno condotto uno studio per verificare il target specifico o prevalente dell’azione di queste sostanze in termini di processi psichici influenzati. In particolare, hanno cercato di comprendere se fosse prevalente l’azione sui sistemi neuronici implicati nei processi cognitivi o se, come studi recenti hanno suggerito, il bersaglio primario sia costituito dal circuito che influenza lo stato edonico e il livello di motivazione. A questo scopo hanno posto sperimentalmente a confronto gli effetti del metilfenidato, considerato prevalentemente un inibitore della ricaptazione di dopamina e noradrenalina, con quelli della sulpiride, ossia uno psicofarmaco che blocca selettivamente i recettori dopaminergici D2. Le due molecole sono state valutate anche contro placebo.

I volontari sono stati sottoposti a delle prove implicanti valutazioni logiche tipo costi-benefici per decidere se impegnarsi o meno in uno sforzo cognitivo. Tutto il comportamento è stato esaminato in rapporto alla capacità di sintesi della dopamina nel nucleo caudato, e sono stati messi a confronto i parametri testati dalle prove nelle tre diverse condizioni determinate da ciascuno dei due farmaci e dal placebo.

(Westbrook A., et al., Dopamine promotes cognitive effort by biasing the benefit versus costs of cognitive work. Science 367 (6484): 1362-1366, 2020).

La provenienza degli autori è la seguente: Department of Cognitive, Linguistic, and Psychological Sciences, Brown University, Providence, RI (USA); Radboud University, Donders Institute for Brain Cognition and Behaviour, Centre for Cognitive Neuroimaging, Nijmegen (Paesi Bassi); Radboud University Medical Centre, Department of Psychiatry, Nijmegen (Paesi Bassi); Carney Institute for Brain Science, Brown University, Providence, RI (USA).

Nel secolo scorso, dopo i radicali miglioramenti prodotti nella società dal boom economico, si andarono affermando nelle nazioni dell’occidente industrializzato nuovi stili di vita caratterizzati da aumento della scolarizzazione media, sviluppo delle specializzazioni professionali, enorme incremento dei ritmi delle attività quotidiane e vertiginosa espansione dei viaggi intercontinentali per lavoro, studio e turismo. La crescente esigenza di potenziare l’efficienza cognitiva, legata alle nuove abitudini sociali e sempre più spesso a un prolungamento del periodo esistenziale attivo per maggiore durata della vita media[5], quando l’introduzione degli psicofarmaci diffonde la convinzione che si possa modificare la mente con delle compresse, fa nascere la richiesta di una “pillola della memoria”.

A metà degli anni Sessanta fu pubblicato un report sull’identificazione di un farmaco, la pemolina o magnesio-pemolina, apparentemente in grado di potenziare l’attività della RNA-polimerasi, enzima chiave nella sintesi delle proteine. Ricercatori di ambito farmaceutico sostenevano, mediante prove comportamentali nei ratti, che la pemolina accelerasse l’apprendimento nei ratti. Seguì un notevole impegno sperimentale da parte di molti laboratori nel tentativo di riprodurre i risultati di questi esperimenti, ma gli esiti non mostrarono una riduzione dei tempi di apprendimento o un potenziamento della memoria, inducendo i biologi a ritenere che le deduzioni dei farmacologi fossero infondate[6].

Fu allora ipotizzato, sulla base di alcune evidenze, che la magnesio-pemolina potesse agire come si riteneva che agissero gli amfetaminici e gli altri farmaci assimilati a questi psicostimolanti, ossia potenziando l’attenzione. I biologi rimasero scettici, ma ciò non impedì alla casa farmaceutica Abott di proseguire la ricerca, ottenere il brevetto del farmaco e avviarne la sperimentazione sull’uomo. Le prove furono condotte secondo i canoni e i metodi della ricerca farmacologica internazionale, che consentono di evitare influenze da bias dei ricercatori, su un grande numero di volontari, costituiti prevalentemente da studenti dell’Università di Chicago[7]. Gli esiti della sperimentazione, che includevano i risultati degli esami cui erano sottoposti studenti e controlli in doppio cieco, furono positivi. Ma, in successive verifiche in differenti contesti, gli effetti positivi non andavano oltre quelli del placebo e, pertanto, la prima “pillola della memoria” fu bocciata da neurobiologi e psichiatri.

Si è voluto ricordare questo “caso storico”, primo di una serie di tentativi prodotti nei decenni seguenti, sia perché già mezzo secolo fa era stato ipotizzato per la pemolina un meccanismo simile a quello della classe di farmaci cui appartiene il metilfenidato, sia perché si assiste nuovamente alla diffusione dell’idea che l’assunzione di tali molecole possa potenziare le capacità cognitive di una persona, in altri termini renderle più intelligenti.

L’ambito della biologia molecolare, nel quale militavano coloro che erano scettici circa le proprietà della magnesio-pemolina, ha poi prodotto prove su meccanismi molecolari implicati nei processi cognitivi, che hanno spostato l’attenzione su una dimensione neuroscientifica molto più vicina alla complessa realtà della fisiologia cerebrale.

I recettori NMDA del glutammato, che per inciso è il neurotrasmettitore eccitatorio di gran lunga più impiegato nelle sinapsi del cervello, sono dotati della proprietà di rilevatori di coincidenza dello stimolo pre- e post-sinaptico, un processo necessario per l’induzione del potenziamento a lungo termine (LTP) alla base della memoria[8]. Negli NMDA, la prevalenza della subunità NR2B a discapito di NR2A, quale partner di NR1, accresce le capacità di apprendimento e memoria. Il cosiddetto “topo cervellone”, come fu battezzato Doogie in Italia, era un animale transgenico con una prevalenza di subunità NR2A[9].

Tanto premesso, torniamo ai contenuti dello studio di Westbrook e colleghi qui recensito.

In estrema sintesi, il metilfenidato accresce enormemente la propensione a impegnarsi in un compito cognitivo alterando la ratio del rapporto costi-benefici dell’attività cognitiva. La volontà a produrre uno sforzo si è rivelata maggiore nei partecipanti con più elevata capacità di sintesi della dopamina nell’area dello striato. L’effetto più evidente e significativo su questo parametro, prodotto da parte di metilfenidato e sulpiride, si è registrato come aumento di motivazione nei soggetti con bassa capacità di sintesi di dopamina.

Dall’insieme dei risultati emersi, per i cui dettagli si rimanda al testo integrale dell’articolo originale, si desume che gli psicostimolanti assunti per accrescere l’efficienza cognitiva agiscano al livello motivazionale piuttosto che sui processi intellettivi in quanto tali.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di studi di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Ludovica R. Poggi

BM&L-04 aprile 2020

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Come Ritalin è stato commercializzato in Italia dalla Novartis ed è prescrivibile dall’8 marzo 2007. Nella forma farmaceutica a rilascio modificato ha i nomi commerciali di Equasym e Medikinet.

[2] Il metilfenidato, come la cocaina, ha mostrato la capacità di bloccare direttamente la ricaptazione, mentre l’amfetamina e altre molecole simili agiscono come substrati trasportati: in tal modo promuovono l’efflusso delle monoammine per trasporto inverso, mediante il processo di exchange diffusion.

[3] Volkow N. D. & Swanson J. M., Does childhood treatment of ADHD with stimulant medication affect substance abuse in adulthood? The American Journal of Psychiatry 165, 553-555, 2008.

[4] Fin dalla fine degli anni Cinquanta in Italia era comune l’impiego di amfetaminici (simpamina) fra gli studenti durante la preparazione di esami impegnativi, per vincere la sonnolenza e studiare con efficienza giorno e notte. Solo con gli studi che hanno scoperto un meccanismo molecolare comune con la cocaina e con il crescere dei casi di tossicità e dipendenza è cessato quest’uso dannoso e pericoloso. Da oltre mezzo secolo le indicazioni per gli amfetaminici sono ristrette alla narcolessia, all’obesità con sonnolenza diurna e poche altre sindromi.

[5] Attribuito in genere a numerosi fattori economici, politici e sociali, ma prevalentemente da ascriversi all’introduzione degli antibiotici, che determinarono una drastica riduzione della mortalità in tutte le età della vita.

[6] Cfr. Glasky et al., Science CLI, 702, 1966; Beach et al., Science CLV, 698, 1967; Burns et al., Science CLV, 849, 1967; Frey et al., Science CLV, 1281, 1967.

[7] Cfr. Steven Rose, Il Cervello e la Coscienza, p. 227, EST Mondadori, Milano 1973.

[8] Questi esperimenti hanno confermato la regola di Hebb della rilevazione della coincidenza fra stimolo presinaptico e post-sinaptico perché si abbiano apprendimento e memoria.

[9] Basic Neurochemistry (Brady, Siegel, Albers, Price), Molecular Mechanisms of Learning, pp. 970-971, AP Elsevier, Waltham 2012. Già negli anni Novanta, Joe Tsien aveva ipotizzato che lo shift da NR2B a NR2A con l’invecchiamento potesse spiegare la difficoltà ad apprendere nelle età molto avanzate.